di Isabella Egidi
Valgono tanto oro quanto pesano, non a caso la loro quotazione sul mercato è a dir poco sibaritica. Stiamo parlando dei tartufi, funghi ipogei (cioè che crescono e si sviluppano nel sottosuolo), appartenenti alla divisione degli Ascomiceti, un gruppo comprendente oltre 15.000 specie di funghi. Nello specifico fanno parte della famiglia delle Tuberaceae e in particolare appartengono al genere Tuber e ad alcuni altri generi correlati. Li chiamano non a caso i "diamanti della cucina" perché "durante il periodo di raccolta", spiega Mauro Carbone, direttore del Centro Nazionale Studi Tartufo, "il tartufo bianco può oscillare intorno ai 250-300 euro per etto". Eppure ne bastano pochi grami per cambiare marcia ad ogni piatto.
Tra le varie specie (circa una cinquantina) di tuberacee, solo poche tuttavia sono ricercate per le loro qualità organolettiche. Citiamo a riguardo il tartufo bianco (Tuber magnatum) e la sua varietà pico, il tartufo nero pregiato (Tuber melanosporum Vitt.), il tartufo bianchetto (Tuber borchii), il tartufo invernale (Tuber brumale Vitt.), il tartufo nero liscio, (Tuber macrosporum Vitt.), il tartufo estivo o scorzone (Tuber aestivum). Da ricordare inoltre la Terfezia arenaria, un fungo ipogeo che con il tartufo, spiega l'esperto, "condivide solo il nome e l'habitat ma non le proprietà organolettiche. Si tratta del tartufo già noto ai Greci e ai Romani, ancora oggi molto ricercato nei paesi arabi".
I tartufi si presentano con un aspetto simile a una patata e sono costituiti da un rivestimento esterno detto "peridio" e da una polpa interna detta "gleba". "Dal punto di vista nutrizionale", riprende Carbone, "il valore del tartufo è scarso, paragonabile a quello dei comuni funghi coltivati, essendo costituito per circa 82 per cento di acqua e sali minerali. Inoltre viene consumato abitualmente in quantità assai ridotte, 5-10 grammi al massimo". Eppure il tartufo è il tipico esempio di quanto gusto e tradizione possano dimostrarsi indipendenti dal contributo nutrizionale di un cibo e di quanto sia possibile trovare nell'alimentazione anche situazioni "extra". Come ad esempio una gradevole sollecitazione dell'odorato, un incitamento all'appetito o - perché no - il mero appagamento "fine a se stesso"".
Non a caso il brillante gastronomo e magistrato francese Jean Anthelme Brillat-Savarin (1775-1826) attribuiva ai tartufi non la virtù di saziare lo stomaco ma quella di "rendere le donne più tenere e gli uomini più amabili". Da qui ad attribuire ai tartufi proprietà afrodisiache il passo è stato breve. "Il tartufo", ironizza Carboni, "è afrodisiaco tanto quanto può esserlo una bella e costosa macchina sportiva, se quest'ultima fosse commestibile. La connessione è legata invece all'intenso odore dei tartufi derivato dalla sommatoria di tante molecole diverse, di cui alcune più dominanti di altre".
Si tratta di composti come ad esempio il bismetiltiometano, una componente dominante dell'aroma (più nei bianchi che nei neri) che ricorda nella composizione chimica l'androstenolo, una sostanza "irresistibile" per alcuni mammiferi". Questa è presente ad esempio nella saliva dei cinghiali in calore, dove funge da feromone per spingere all'accoppiamento le giovani scrofe. Ciò spiega il motivo per cui alcuni "cavatori" usino nella ricerca le femmine della specie e come mai queste ultime abbiano un innato talento nel fiutare il tartufo.
"Ricordiamo", conclude l'esperto, "che il bismetiltiometano è da anni riprodotto in laboratorio quale base della cosiddetta "essenza di tartufo", attualmente utilizzata per aromatizzare salse, patè, oli ma anche per conferire un intenso profumo a tartufi scadenti".
FONTE: www.repubblica.it